martedì 26 febbraio 2013

I miei ragazzi, che si sporcano le mani.




Si chiude oggi, con l’ultimo esame sostenuto dall’ultima allieva del corso di Restauro, la mia esperienza settennale di insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Lecce (da docente a contratto, sia ben chiaro, non sia mai ci abituassimo all’idea di qualcosa diverso dall’eterno precariato).
Esperienza iniziata per caso, con un bando reperito fortuitamente sul sito dell’URP del mio comune e la domanda inviata senza alcuna speranza, seguita da una partenza successiva per l’ennesimo “viaggio della speranza” nel centro-nord. Al punto che, quando mi sono sentita chiamare al cellulare perché il mio curriculum era risultato vincitore della selezione, ero a Bologna, nell'azienda per cui lavoravo all'epoca, e mi ero totalmente dimenticata di aver presentato quella domanda. 
Ma non ho avuto un attimo di esitazione, ho confermato la mia volontà di intraprendere questa avventura, e sono iniziati i tour de force dei weekend con levataccia alle 5 di mattina per prendere l’aereo che mi avrebbe portato a Brindisi e da lì il passaggio per arrivare a Lecce, dove mi attendevano ogni volta almeno 4 ore filate di lezione.
All’inizio l’impatto è stato stranissimo: si trattava di un corso dell’ultimo anno del biennio di specialistica, e il primo anno c’erano degli allievi molto più grandi di me, gente di mezz’età, per cui mi pareva strano non essere io quella dall’altra parte della cattedra. Chi mi dava del “lei”, chi addirittura del “voi”. Mi veniva quasi da ridere…
Ma l’entusiasmo e la voglia di fare hanno prevalso su ogni dubbio e il corso ha preso subito forma: dato che la mia materia, “Marketing e management dei beni culturali”, era stata inserita nel corso (all’epoca sperimentale) di Restauro per consentire agli allievi un approccio concreto al mondo lavorativo, non ho avuto dubbi sull’impostazione fortemente pratica da dare allo stesso.
È iniziato così un flusso ininterrotto di pensieri, energie, idee e progetti, a volte più a volte meno interessanti, fattibili, realizzabili, tutti però con in comune la voglia di fare e di provare a realizzare qualcosa di concreto, a prescindere dal fatto di dover poi sostenere un esame di profitto.
I ragazzi che hanno frequentato il mio corso sono stati, nella maggior parte dei casi, estremamente motivati: d’altronde non fai l’accademia se non hai almeno una forte motivazione che ti spinge ad intraprendere quella strada.
Quelli che avevano già avuto esperienze di valorizzazione culturale spesso sono stati quelli che più mi hanno deluso (se così si può dire) perché hanno sottovalutato l’aspetto di ricerca e analisi di contesto che era alla base del corso. Fortunatamente sono stati pochi, mentre la maggior parte, del tutto o quasi digiuna da queste esperienze, si è fortemente impegnata e mi ha dato grandi soddisfazioni: una delle frasi più belle è stata pronunciata da un allievo che, incontrandomi dopo qualche tempo, mi ha detto “sai, il metodo che ci hai insegnato è utilissimo in tutte le situazioni progettuali che ci troviamo ad affrontare ora”. Una grande soddisfazione.
Ripensandoci, forse a volte sono stata "troppo buona", ho dato spesso voti alti, ma non potevo fare diversamente, perché in tutti i casi c’era alla base un grandissimo impegno e una fortissima motivazione. Nei pochi, pochissimi casi in cui questo non è avvenuto è stato un vero cruccio personale, perché, non essendoci poi chissà quanta differenza d’età tra me e questi ragazzi, il rapporto si è sempre molto basato su una forma di empatia e di condivisione di sogni e speranze, quindi probabilmente è mancato qualcosa anche nel mio modo di pormi. O chissà, a volte capita e basta.
Senza fare torto a nessuno, non posso non ricordare alcuni personaggi: chi, dopo un’esperienza Erasmus e avendo frequentato solo un paio di lezioni (le ultime peraltro), riuscì a sostenere brillantemente l’esame all’appello di luglio; chi, sull’onda dell’entusiasmo, ha provato immediatamente a sottoporre il proprio progetto agli enti pubblici di competenza; chi, pur provenendo da un’altra nazione, è riuscita a scrivere un progetto in un italiano perfetto; chi ha realmente tirato su un’associazione e adesso realizza eventi; chi, spinto dall’amore per la propria città, si adopera affinché non cada a pezzi; chi si è talmente appassionata di questa materia da approfondirla ulteriormente in un master (e speriamo che non mi maledica prima o poi per questo!)…
E come non ricordare i miei tre tesisti? Su tutti, simbolicamente, quella che è stata proclamata dottoressa con in braccio la sua bimba di pochi mesi dopo una discussione che definire brillante sarebbe poco.
A fronte di tutti questi elementi positivi, vorrei non dover citare le infinite peregrinazioni nei corridoi alla ricerca di un’aula dove fare lezione, la mancanza di attrezzature, ivi comprese quelle informatiche, poche e sempre prenotate. Ma tant’è…
Non posso non dire, inoltre, di aver visto l’entusiasmo di questi ragazzi appannarsi col passare degli anni, sempre più alle prese con problemi burocratici e difficoltà nell’approcciarsi con il mondo del lavoro: li ho visti, una volta laureati, "mettersi la strada sotto i piedi" e andare dovunque inseguendo un cantiere di lavoro. E tornare sconfortati dalla costante e continua precarietà della condizione di lavoratori della cultura, di quelli che si sporcano le mani mentre cercano di mantenere intatto il nostro patrimonio artistico, quello per cui siamo famosi nel mondo intero.
Perché i miei ragazzi sono colti ma sono anche pragmatici: non sono choosy perché loro hanno imparato un mestiere, ed è un mestiere che tra colori, solventi, acidi, pennelli, pietre e scalpelli, ti porta a diretto contatto con la materia, non quella (o non solo quella) di cui sono fatti i sogni, ma quella di cui è fatta la nostra storia.
Il problema è, come sempre, che questo mestiere non ha il giusto riconoscimento, come pressoché tutte le professioni della cultura, in questo paese assurdo dove non si valorizzano le eccellenze.
Ecco, posso affermare con certezza che questi ragazzi sono delle eccellenze!
E tra qualche giorno molti di loro conseguiranno questa laurea, che spero possa servire per valorizzare le loro capacità e le loro aspettative. Se guardo il mondo attraverso i loro occhi, ancora oggi non posso non pensare che una via d’uscita, un futuro migliore, ci possa essere. 
A loro auguro di superare brillantemente questa e tutte le prove future che la vita gli riserva, mantenendo sempre viva la luce negli occhi.
In bocca al lupo!


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